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La sindrome della rana e i manager 3.0

Tutti Gli Articoli dal Manuale.
sindrome della rana

1. Essere manager (7) in contesti mutevoli

Un po’ di tempo fa mi è capitato di leggere un testo di Noam Chomsky dove si parlava della “sindrome della rana bollita”.

Facendo riferimento a ricerche scientifiche, Chomsky riferisce che, se si prende una rana e la s’infila in una pentola con dell’acqua bollente, questa salterà fuori immediatamente, scottata e spaventata. Se invece la rana viene infilata in una pentola piena d’acqua a temperatura ambiente, comincerà a nuotare tranquillamente. Se a quel punto si accende il fuoco e si lascia crescere la temperatura, gradualmente, prima 40°, poi 50°, fino all’ebollizione, la rana, non si renderà conto del cambiamento della temperatura e accetterà la situazione fino a lasciarsi bollire e morire. Gli scienziati chiamano questo atteggiamento “sindrome della rana bollita”, come metafora della situazione umana che si appresta a varcare la soglia di trasformazioni irreversibili.

Per essere ancora più specifici, questa metafora può essere utilizzata nei confronti di qualunque soggetto che, inconsapevole delle mutazioni del contesto in cui è inserito, non si adatta con opportuni cambiamenti. Il contesto cambia, si modifica, il soggetto resta uguale. Naturalmente, questa non-sincronia potrà solo arrecare danno al soggetto.

È facile intendere come questa teoria non sia altro che una nuova e più semplificata lettura della fondamentale teoria evoluzionista di Darwin: sopravvive e prospera solo chi riesce ad adattarsi al cambiamento.

Gli esempi che si possono fare, legati al comportamento umano, sono innumerevoli. Il tennista che si rende conto del nuovo gioco che sta utilizzando il suo avversario dovrà modificare il suo approccio alla partita per tentare di vincere; il genitore che segue i cambiamenti dovuti alla crescita del proprio figlio dovrà adattare il suo comportamento alle diverse fasi della vita del figlio stesso, per evitare disfunzioni relazionali. E si potrebbe continuare.

Tuttavia, questa propensione al cambiamento non è sempre insita nel nostro comportamento. Anzi. E i motivi sono diversi. È facile per esempio che, poiché non desideriamo che avvenga un cambiamento che in realtà è già in atto, la nostra mente non lo veda, non lo registri. E continuiamo dunque a comportarci come se il cambiamento non stesse avvenendo. È questa, per esempio, la situazione tipica di un genitore che non accetta che il figlio cresca, e continua a trattarlo come se fosse un bambino. O di una coppia che non vede che la propria relazione sta andando a rotoli e continua a condurre una rassicurante grigia routine. Naturalmente dietro questi comportamenti c’è sempre una spiegazione, legata alla struttura del nostro inconscio, ma non è questo il punto. Qui è importante rilevare come il non adattarsi al cambiamento conduca sicuramente a una situazione disfunzionale. La rana non si accorge che l’acqua si sta scaldando ed è destinata a soccombere. Succede qualcosa di molto simile quando noi non ci accorgiamo del contesto che cambia.

Naturalmente il discorso può essere applicato in modo altrettanto preciso alla vita di un manager, di un imprenditore, di un professionista. Mi capita spesso di fare una domanda ai miei interlocutori. Gli chiedo secondo loro quanto è cambiata la loro attività negli ultimi sei/sette anni. La maggior parte mi risponde che è cambiata tantissimo, che si è completamente trasformata, per i più svariati motivi: la crisi economica, le nuove tecnologie, l’euro, etc. A questo punto pongo loro un’altra domanda, chiedendogli cosa hanno cambiato di sostanziale nel loro modo di portare avanti il proprio lavoro. Molto spesso, dopo qualche attimo di riflessione, la risposta è che in realtà, di sostanziale, nel loro modo di lavorare non è cambiato nulla. Magari sono cambiati gli strumenti che si utilizzano, ma l’essenza no, quella è rimasta sostanzialmente immutata.

Ed ora rivolgo a voi le stesse domande: quanto è cambiato il contesto in cui operate, in questi ultimi anni? E quanto è cambiato il vostro modo di lavorare? E come pensate di poter “sopravvivere” se non vi adattate la cambiamento.

Tornando alla storiella della nostra povera rana, un manager ha l’obbligo assoluto di essere completamente e sistematicamente sintonizzato sull’ambiente che lo circonda. E quando si parla di contesto, non si fa solo riferimento al mercato – aspetto peraltro ovvio – ma a una serie di altre variabili altrettanto rilevanti. Ho letto poco tempo fa che negli ultimi cinque anni si è registrato un tasso d’innovazione tecnologica paragonabile ai precedenti centocinquant’anni.

Basti pensare al semplice fatto che, dopo centinaia di anni di tentativi, nel 1903, grazie ai fratelli Wright, l’uomo è riuscito per la prima volta a volare, anche se appena per 59 secondi. Successivamente, in soli 66 anni, un uomo è arrivato sulla Luna! E proprio a proposito della tecnologia che consentì di portare l’Apollo 11 sulla Luna, varrà la pena di aggiungere che il computer principale aveva un processore che girava a 1024 MHz, circa 1/6 del processore di una semplice calcolatrice tipo TI-83 della Texas e infinitamente più lento di quello degli attuali smartphone.

A Grazie cosa conduce questo discorso? Che cosa vuol dire per chi vive posizioni di responsabilità professionali? Operare in contesti mutevoli vuol dire necessariamente imparare a essere continuamente attenti ai segnali che riceviamo dall’esterno. I segnali ci arrivano dalle persone che ci circondano, dai collaboratori, dai capi, dai colleghi, dall’azienda, dai nostri amici. I segnali ci arrivano da quello che leggiamo, da quello che ascoltiamo. Poi, naturalmente, si deve attivare la nostra capacità di elaborare questi segnali e strutturarli in nuove strategie. In sostanza, la nostra capacità di adattarci al cambiamento. E il modo migliore per farlo ci viene suggerito dall’approccio sistemico.

Il “pensiero sistemico” propone una nuova maniera di guardare il mondo, per cercare di dominarne meglio la complessità. L’obiettivo è di considerare non gli elementi singoli ma l’insieme delle parti, intese come un tutto unico, concentrandosi sulle relazioni tra gli elementi piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente. La metafora più utilizzata è quella dell’essere capaci di “tirarsi indietro” dai dettagli, abbastanza da poter “vedere la foresta invece dei singoli alberi” ma, purtroppo, la maggior parte di noi quando si tira indietro vede soltanto “un gran numero di alberi”. Ne scegliamo uno o due che preferiamo e concentriamo la nostra attenzione e i nostri sforzi su come cambiarli. L’arte del pensiero sistemico consiste nel vedere, attraverso la complessità, le strutture sottostanti che provocano il cambiamento (8).

2. Da yuppies anni ’80 a manager consapevoli degli anni ’20 (del 2000!)

An Italian yuppie from the 1980s, inspired by American yuppies and figures like Gianni Agnelli, depicted in a pinhole camera style. The image shows a stylish Italian yuppie man, dressed in an 80s fashion with a touch of elegance and charm. He's at a luxurious Italian cafe or a sophisticated event, displaying a lifestyle of apparent wealth and success. His attire is fashionable, with a nod to the 80s Italian elegance, and he's surrounded by symbols of wealth and status, such as a vintage Italian car, designer accessories, and gourmet food, emphasizing the era's emphasis on image and lifestyle.

Spiega Wikipedia:

Yuppie è la forma breve di Young Urban Professional. Termine inglese diffusosi internazionalmente, a partire dagli anni Ottanta ha indicato un giovane professionista “rampante” che abbraccia la comunità economica capitalista e in essa trova realizzazione.

Era la figura del giovane uomo d’affari tra i 25-35 anni, che ebbe origine a Manhattan verso la metà degli anni Ottanta. Giovani neo-laureati dalle università Yale, Harvard o Princeton seguivano il sogno di diventare ricchi nel modo più veloce buttandosi nella New York, che, durante l’era repubblicana di Ronald Reagan, aveva raggiunto un livello elevato di benessere e prometteva molto per coloro che investivano e lavoravano in borsa.

Molti di questi yuppies statunitensi frequentavano ristoranti e discoteche esclusive come il famoso Studio 54 di Manhattan, quasi tutti lavoravano nei grattacieli del centro di New York, frequentando feste esclusive a volte organizzate da loro colleghi o attori e anche dal famoso Donald Trump. Era comune tra di loro usare la cocaina come svago e vestire abiti Armani e Versace, comprando quadri del famoso artista Jean-Michel Basquiat.

Lo yuppie anni Ottanta abitava in appartamenti arredati con colori mono-cromatici, poltrone e divani di pelle bianco e nero con dettagli di acciaio cromato, in cucina era di rigore il forno a microonde come ultima novità tecnologica; spuntano i primi cibi precotti da scaldare per l’uomo che non si ferma mai, per l’uomo dinamico che non ha tempo per altro che il suo lavoro. La musica ascoltata erano i Duran Duran, Huey Lewis & The News, Prince, Cyndi Lauper; il compact disc era un oggetto indispensabile da sfoggiare, le cassette erano vecchie secondo la loro filosofia.

Lo yuppie italiano era un’emulazione di quello americano, con figure di riferimento come Gianni Agnelli. La caratteristica dello yuppie degli anni Ottanta era dettata dall’immagine e dalle diverse abitudini, nel cibo e negli svaghi ma prevalentemente nell’ostentazione di uno stile di vita e di una ricchezza non sempre reale. È il periodo della cosiddetta “Milano da bere”, della moda elegante, degli sport estremi, delle arti marziali particolari, delle vacanze in posti esclusivi e dei ristoranti di cucina internazionale, con particolare attenzione a quella giapponese e indiana. L’epoca dello yuppismo terminò con lo scoppio di Tangentopoli.

Erano gli anni ‘80, ma sembra passato un secolo. Ovviamente, anche oggi esistono professionisti, manager, imprenditori che potrebbero a ogni titolo appartenere alla categoria degli yuppies. Sicuramente, però, questa cultura non permea più la nostra società.

Certamente, anche oggi chi è investito da responsabilità professionali importanti, deve avere ambizione e voglia di crescere. Tuttavia il focus si sta spostando. Oggi, sempre più, il manager consapevole deve essere concentrato sulla gestione delle risorse umane.

In un recente studio di Confindustria (9) si chiarisce il passaggio da un’economia industriale basata sulle relazioni industriali, a un’economia del cambiamento basata sull’essere umano. Innumerevoli altri studi, che analizzeremo in modo approfondito nel capitolo dedicato alla gestione della squadra, confermano la necessità che il manager focalizzi sempre più la propria attenzione sull’evoluzione e la crescita delle persone.

E questo non per spirito di benevolenza – le aziende non sono associazioni no profit –, ma perché si sta lentamente diffondendo la consapevolezza che il capitale umano rappresenti il vero motore dello sviluppo di un’azienda e quindi la sua opportunità di realizzare profitti.

Non si può inoltre trascurare che la crisi economica di questi ultimi anni ha accelerato questo tipo di visione. Le aziende illuminate, che a dire il vero non rappresentano ancora la maggioranza, hanno compreso l’importanza, per crescere e prosperare, di avere nei propri organici dei manager consapevoli e attenti alla relazione, alla cultura della gestione delle risorse umane, alla cura e al potenziamento dei collaboratori.

Questa è dunque la sfida che attende il manager dei prossimi anni ’20 (non meno che, naturalmente, quelli degli anni attuali): grande attenzione ai risultati, agli obiettivi dell’azienda, alle possibilità di crescita e di aumento del profitto, ma altrettanta attenzione alla gestione delle persone, allo sviluppo del potenziale umano. Questa è la sfida che attende il manager consapevole.

3. Multitasking e Mental Training: sfatiamo un po’ di miti

Che il cervello umano sia un organo particolarmente complesso e affascinante, è ampiamente risaputo. Il cervello controlla tutte le funzioni vegetative del nostro corpo, i nostri organi interni, le nostre percezioni sensoriali, allo stesso modo in cui presiede anche a quelle funzioni di ordine  superiore come il pensiero, l’apprendimento, la memoria, e così via.

Credo sia interessante evidenziare che già durante lo sviluppo del feto  vengono poste le basi per lo sviluppo della mente, tramite la creazione di  connessioni tra i neuroni secondo modelli predeterminati. Durante la gestazione le cellule nervose sono programmate per “dirigersi” in specifiche zone del cervello. Una volta raggiunta la posizione prefissata si trasformano ed emettono un prolungamento denominato assone al fine di connettersi con altri neuroni, in maniera non casuale. Il nostro cervello contiene  circa 100 miliardi di neuroni (10) che si connettono tra di loro secondo reti  molto complesse.

Le abitudini e le capacità non innate di un individuo,  ovvero apprese nel corso del suo sviluppo – quali suonare uno strumento musicale, imparare una lingua, apprendere il calcolo matematico per  esempio – sono incorporate nel cervello tramite la creazione di nuove  reti tra i neuroni. Più il nostro cervello è sottoposto a stimoli, più produce  nuove connessioni tra i neuroni.

Come vedremo, è possibile accrescere o modificare le connessioni tra i  neuroni – e dunque incrementare le prestazioni del cervello – anche mediante l’allenamento; allo stesso modo, quando una persona smette di  praticare con frequenza un’attività, le reti neuronali coinvolte cadono in  disuso e possono anche dissolversi, dando ai neuroni coinvolti la possibilità di stabilire nuove connessioni.

Naturalmente, al fine di ottenere le migliori prestazioni da uno strumento  così plastico e performante, è opportuno che esso venga utilizzato nei  modi più opportuni.

Da alcuni anni a questa parte, grazie allo sviluppo del sistema operativo  Windows, nonché al continuo bombardamento di input e informazioni a  cui siamo in ogni momento esposti (11), si è ampiamente diffusa la pratica  del cosiddetto multitasking (12).

Con questo termine, si fa riferimento alla capacità dell’essere umano di  operare contemporaneamente su diversi fronti, soprattutto al fine di migliorare la propria performance anche attraverso un utilizzo più efficace e  produttivo del tempo a nostra disposizione.

Da alcuni anni a questa parte, grazie allo sviluppo del sistema operativo  Windows, nonché al continuo bombardamento di input e informazioni a  cui siamo in ogni momento esposti (11), si è ampiamente diffusa la pratica  del cosiddetto multitasking (12).

Con questo termine, si fa riferimento alla capacità dell’essere umano di  operare contemporaneamente su diversi fronti, soprattutto al fine di migliorare la propria performance anche attraverso un utilizzo più efficace e  produttivo del tempo a nostra disposizione.

Prima di Windows, chiunque  operasse su un computer aveva a che fare con MS-DOS, un sistema operativo che permetteva di utilizzare un programma alla volta. Per passare  a un’altra attività, occorreva salvare, chiudere e aprire altro programma.  Con l’avvento di Windows tutto questo è cambiato: si è imposta l’abitudine di operare su più programmi contemporaneamente, saltando da un’attività a un’altra.

In realtà, al contrario di ciò che spesso si pensa, il multitasking rappresenta uno dei più gravi errori che si possa fare per migliorare la nostra  produttività. Volendo prendere in prestito le parole di uno dei più importanti psicologi e psicoterapeuti del mondo, Daniel Goleman, si potrebbe  dire che “la nostra concentrazione non è come un palloncino che si può  espandere per inglobare più cose per volta, ma può essere paragonata  piuttosto a un sottile tubo, che può condurre un liquido in un’unica direzione: anziché suddividerla fra due attività, oscilliamo con rapidità tra  le due, un passaggio che comporta comunque un indebolimento rispetto alla concentrazione piena” (13).

Richiedere alla nostra mente di saltare  da un’attività a un’altra implica necessariamente una diminuzione della  capacità di concentrarsi, un aumento della possibilità di fare errori, un  aumento del tempo necessario per portare a termine quanto definito.  Basti pensare che quando stiamo svolgendo un’attività ad alta concentrazione, e riceviamo un segnale di disturbo, quale una telefonata, una mail,  o qualsiasi altra cosa, per ritornare a livello di concentrazione precedente, sono necessari da quattro a otto minuti. Approfondirò questi concetti  nella parte dedicata alla gestione del tempo.

Ora, desidero solo attirare  l’attenzione sul fatto che, secondo studi recenti, a cominciare da quelli di  Daniel Levitin (14), il multitasking, per quanto proposto o imposto da migliaia di aziende come strategia operativa al fine di accrescere produttività ed efficienza, rappresenta oggi uno dei modi peggiori per sfruttare le nostre  capacità mentali. La mente umana non è strutturata per questo.

Si diceva prima della possibilità di tenere il cervello in allenamento per  migliorare la sua funzionalità. Questo rappresenta il presupposto dell’attività di Mental Training.

È importante che si condivida in questa fase  del nostro percorso che specifiche attività di allenamento possono permettere di migliorare le nostre capacità mentali. Coloro che credono  che il nostro cervello, il nostro potenziale mentale, sia immutabile e non  migliorabile, hanno commesso un errore ad acquistare questo volume. Interrompano pure la lettura. Per gli altri, invece, si può affermare semplificando in modo estremo, che il nostro cervello è un muscolo (15).

Se si desidera sviluppare i propri bicipiti, non si dovrà far altro che programmare un  allenamento mirato e sistematico. Fatta salva la variazione dell’elemento  tempo, dovuta alla particolare struttura muscolare di ogni soggetto, prima  o poi raggiungerò l’obiettivo di avere i miei bicipiti definiti, se sarò preciso  e costante nel mio allenamento (16) . Per la nostra mente accade qualcosa  di simile e ormai la letteratura è piena di studi su questo argomento. La  mente va allenata sistematicamente, anche solo con le parole crociate o  con il sudoku.

Il Mental Training, dunque, consiste in una serie di tecniche quali la visualizzazione, il goal setting, il self talk, e altre, che ci permettono di migliorare  la nostra performance, se applicate con attenzione e costanza, e soprattutto sotto una supervisione tecnica. Nei prossimi capitoli, analizzeremo insieme attività specifiche per ogni singola area sulla quale lavoreremo. In conclusione, ho voluto porre le basi per quello che definisco il manager  3.0.

Le sue competenze dovranno contenere:

• Essere in grado di percepire il contesto – ampio – e adeguarsi ad  esso;

• Essere veramente consapevole del ruolo e dell’importanza delle risorse umane che lo circondano;

• Imparare a gestire la propria mente, facendo leva sul Mental Training,  e abbandonando il falso mito del multitasking.

Tuttavia, il mio desiderio è anche quello di condividere con il lettore la  certezza che esiste la concreta possibilità di allenare il proprio cervello e  quindi modificare i propri comportamenti. La mancanza di questa convinzione porterà ad un insuccesso certo. Non c’è nulla di peggio che cominciare  un’attività senza avere la ferma persuasione di poterla portare a termine  con successo.

(7) La parola manager ricorre spesso in questo volume. Tuttavia, come specificato nel sottotitolo del libro, tutto ciò che si dice è assolutamente riferibile tanto ai manager, quanto agli imprenditori, quanto ai professionisti. Userò la parola manager per semplificazione.

(8) Cfr. Pietro Mella, Dai sistemi al pensiero sistemico. Per capire i sistemi e pensare con i sistemi, Franco Angeli, Milano 1997.

(9) Empowerment delle risorse umane = Improvement, IMPRESE X INNOVAZIONE, Confindustria,

(10) Credo sia appena il caso di segnalare che il numero approssimativo di neuroni che compone il  nostro cervello è identico al numero approssimativo di stelle presenti nella via Lattea, la nostra galassia. Certamente è questo un dato privo di alcun valore scientifico, ma ho sempre pensato fosse  una coincidenza particolarmente affascinante.

(11) Considereremo più avanti quanto gran parte di questi input sia dovuto all’uso di smartphone, e  al danno che ci procurano in termini di mancanza di attenzione e concentrazione.

(12) Oggi il termine multitasking è spesso utilizzato anche per indicare una persona con la capacità di  operare in contesti diversi, che richiedono competenze diverse. Qui il riferimento è più specifico.

(13) Cfr. Daniel Goleman, Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici, Rizzoli, Milano  2013.

(14) Daniel J. Levitin è uno psicologo cognitivo, neuroscienziato, musicista e scrittore statunitense.  È attualmente professore di Psicologia e neuroscienze comportamentali all’Università McGill a  Montreal in Canada. Cfr. Daniel J. Levitin, The organized mind, Penguin Publishing Book, New York  2014.

(15) Mi piace evidenziare che dopo anni che lo affermo, ho scoperto di non essere l’unico a usare un  paragone così ardito. Si veda Goleman, Focus, cit.

(16) Vorrei sottolineare che, se nell’introduzione ho parlato dell’importanza della costanza e disciplina per raggiungere un determinato obiettivo utilizzando la metafora della maratona che chiunque  può affrontare, qui il riferimento all’allenamento riguarda il preciso impatto che ha sulla nostra  mente un programma di Mental Training per la modifica delle nostre abitudini comportamentali.

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